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Romani 10:1-21

Paolo si domanda: perché il popolo di Israele ha rifiutato il Messia atteso durante secoli? Perché non hanno riconosciuto in Gesù l'atteso, l'Unto di Dio? Loro hanno inciampato nella pietra di scandalo (l'incarnazione?), non hanno capito quale era il vero senso della legge consegnata nel Sinai e che li costituì come popolo di Dio. Loro avevano creduto che potevano diventare giusti attraverso il compimento delle opere della legge, mentre la rive­lazione mostra come la giustizia è un dono che Dio imputa per mezzo della fede (9:31ss; cfr. Is 8:14s.; 28:16s.).

Chi crede non potrà vacillare: la risposta alla misericordia di Dio può essere soltanto la fede (le opere seguono la fede che giustifica ma non possono precederla, né provocare la risposta di Dio che è per grazia e immotivata).

La pietra di inciampo è Gesù che provoca in alcuni la fede, e in altri lo scandalo. Lui è il germoglio di Abramo. La sua vita e la sua morte sono una provocazione, erano il contrario di quello che si attendeva, furono una sorpresa, ebbero un carattere di disturbo (dovevano essere una pietra di inciampo per provocare la fede).

Secondo Isaia 53, la vita del Messia doveva essere contro segnata, non dalla gloria, ma dalla sofferenza. La Bibbia aveva dunque avvertito, su questo carattere scandaloso della vita e della morte del Messia, perché una volta arrivato potesse essere riconosciuto nella debolezza e nella sofferenza. Gli ebrei falli­rono perché si fermarono alla lettera della Bibbia, e non seppero interpretare il suo spirito che parlava delle contraddizioni e dei limiti della persona umana di Gesù il Cristo, del Messia atteso.

 

Vv. 1-13: In questa sezione Paolo approfondisce il concetto, la sua lettura teologica, della defezione (fallimento) di Israele. Ma chiarisce bene la sua posizione riguardo Israele, come popolo eletto. Egli non vuole e non crede alla sua scomparsa dall'orizzonte della salvezza, ma si attende il ritorno di Israele all'ambito della redenzione. Afferma, e questo sembra una vera e propria confessione personale, che gli ebrei nella loro religiosità, sono guidati da zelo per Dio, (thelon theou) ma non da secondo conoscenza (Kat’epignosin) (vs.2) . Questa comprensione ha delle importanti conseguenze teologiche anche per noi. Perché questo divario Paolo lo ha esperimentato nella sua stessa vita. La chiave è che loro hanno cercato da soli, per i propri mezzi e con le sole opere, di mettersi loro stessi nella giusta relazione con Dio, senza rendersi conto che la giustizia di Dio è un dono della grazia che giunge agli esseri umani da Dio stesso, attraverso la fede in Cristo (e nelle sue promesse), come i casi di Abramo e il suo personale illustrano. Dunque la possibilità di una giusta relazione con Dio dipende dal fatto che Dio giustifichi dinanzi a sé l'essere umano. Il concetto fondamentale non è la giustizia (intesa nel senso latino di dare a ciascuno il suo: "ciò che merita"), ma la misericordia, il fatto che Dio renda giusti dinanzi a sé, cioè giustifichi il peccatore attraverso la fede in Cristo. La giustizia è in primo luogo un dono divino, inizia come un dono divino all'essere umano che crede. Poi questa giustizia cresce durante la vita, attraverso l'osservanza della legge, dei comandamenti ed esigenze etiche personali nei confronti di Dio e verso gli altri. Ma non sono queste "opere della legge" a far nascere in noi la giustizia.

Senza giustizia non si può affrontare il giusto giudizio che ci attende. Il messaggio liberatore del Vangelo consiste in questa affermazione: la giustizia è un dono divino che ci viene imputata attraverso la fede in Cristo. Non saremo giudicati per il "grado" di giustizia che avremo raggiunto attraverso l'osservanza delle opere della legge, attraverso le opere umane (chiamate anche opere carnali o della carne), ma perché la fede in Cristo ci viene imputata come giustizia. La liberazione avviene perché quello che era impossibile per gli esseri umani, raggiungere da soli il grado di giustizia che la santità divina esige, Dio lo concede per grazia mediante la fede in Cristo.

Questa semplice constatazione solleva la questione del proposito della legge. Secondo Paolo, il proposito non era tanto quello di fornire una regula vitae all'essere umano, che da essere osservata scrupolosamente avrebbe garantito e assicurato il grado di giustizia necessario alla salvezza e stabilito una giusta relazione con Dio che avrebbe prodotto la giustificazione personale. Il proposito era piuttosto che gli esseri umani giungessero alla constatazione dell'impossibilità della via legale alla salvezza e alla giustizia, per affidarsi fiduciosi a Dio non avendo altro oggetto di fede che Dio. Dove non poteva giungere l'opera umana, giungeva liberatore il vangelo della misericordia e dell'amore di Dio, il puro dono era la cifra di ogni qualunque relazione di Dio con il creato.

La riflessione sulla morte come salario del peccato illustra questa concezione paolina della giustizia donata. La morte è il risultato diretto del peccato. Se qualcuno non pecca (non commette un solo peccato nella sua vita), non dovrebbe morire, perché la morte è il salario (il prezzo) che paga l'uomo per il peccato. Se tutti muoiono è semplicemente perché tutti hanno peccato. Dunque non c'è salvezza attraverso le opere della legge perché tutti sono peccatori dato che tutti muoiono. Ma quale è la radice del peccato che porta la maledizione del morire che non è soltanto il fatto biologico del morire ma anche il fatto teologico del perdersi? Notate la risposta: “il giorno che mangerai di quel frutto morirai”. La radice del peccato è la disubbidienza a Dio. Perciò il dono della vita può venire soltanto attraverso l'ubbidienza a Dio. Non potremo eludere la morte, perché essa è il salario del peccato (e la vera soddisfazione penitenziale per il peccato per ciascuno di noi), ma potremo essere salvati dal fatto teologico del perdersi se ci mettiamo nelle mani di Dio, se attraverso la fede in Cristo obbediamo all’esigenza di Dio, alla via della fede in Cristo rinunciando alla pretesa di salvare noi stessi attraverso le opere di giustizia. Ubbidire la fede è accogliere il dono di Dio attraverso il credere e confidare soltanto in Dio. Questo capovolgimento che è un cambio di mentalità e di vita (una metanoia o conversione) non può avvenire per iniziativa umana. Dipende da un'azione divina. Così è accaduto: Cristo compie la totalità della legge; diventa la fine e l’adempimento (conclusione) della legge, il suo punto finale. Non c'è più legge ora nel nuovo patto ma fede in Cristo. L'essere umano si appropria attraverso la fede di questa giustizia di Cristo imputata da Dio stesso a chi crede, questo è messo nella giusta relazione con Dio ed è quindi salvato perché reso giusto da Dio.

Nei vvss 5‑13, Paolo parla del contrasto tra la giustizia che viene dalla legge attraverso il compimento delle opere umane, e quella giustizia che è fondata sulla fede e sgorga dal dono della grazia divina. C'è una citazione dal Levitico (dal codice di santità) 18:5. Secondo questo testo, interpretato letteralmente secondo la tradizione dei farisei, la salvezza fondata sulla legge dipende dall'osservanza di tutta la legge di Cristo. Cristo è la Parola che dà la vita, che ci è vicina, perché è scesa dai cieli ed è risuscitato dai morti. Dio ha agito in favore degli esseri umani impotenti di fronte all'impossibilità di “fare quelle cose e vivere”. L'evento salvatore che sprigiona la vita nuova della risurrezione dalla morte è avvenuto il giorno di Pasqua. La salvezza non è la ricompensa per una vita giusta (questo è impossibile). Ma la salvezza è salvezza dalla morte come perdizione attraverso la risurrezione. La morte biologica è punizione dovuta al peccato, alla quale non possiamo sfuggire nemmeno attraverso la fede in Cristo. Ma è possibile salvarsi dalla morte come perdizione attraverso la fede in Cristo, cioè risuscitare. Questa salvezza non è un premio per le opere compiute, sarebbe un contro senso ‑ le opere ci dovrebbero comunque salvare dal morire biologico, ma non si salva nessuno dal perire dunque tutti sono peccatori e nessuno ha osservato a pieno la legge ‑. Questa salvezza è un dono di Dio, della grazia. Nel vs 9 il concetto è espresso con esemplare concisione ed efficacia: ean homologese (se confessi) en to stomati sou (con la tua bocca) kyrion Iesoun (-il- Signore Gesù) kaì pisteuses en te kardia sou (nel tuo cuore –mente-) hoti ho Theòs autòn égeiren ek nekron sothese (che Dio lo ha risuscitato dai morti sarai salvato).

   

Vv. 14-21:Il Vangelo dunque si configura come la Parola della fede che è Cristo, che è scesa dal cielo e ci è vicina (eggus), nella quale dobbiamo credere (cioè confessare e proclamare con la bocca e il cuore e la mente) perché questa parola ci salvi. La salvezza non dipende dalle nostre opere né dal nostro ravvedimento, non sono le nostre azioni e realizzazioni personali quelle che inducono Dio a operare, ad agire in nostro favore. La salvezza non avviene per iniziativa umana poiché è collegata all’ascolto della parola di Cristo che suscita la fede. La salvezza è innanzi tutto la predisposizione benevola di Dio verso l'umanità malgrado il suo fallimento. E' poi volontà di agire in favore dell'essere umano concreto (questo è il vero significato della predestinazione). Poi, finalmente diventa opera o evento salvatore nella vita, morte e risurrezione di Cristo che è la parola vivente che dà la vita a tutti quelli che credono in Lui.

La fede significa dunque credere e confidare in Dio, che Dio ci abbia dato la possibilità di essere salvati dalla morte, che questa possibilità non è creata ne è il risultato delle nostre opere, che non va cercata né nei cieli né negli abissi, in questa o l'altra religione. La fede è intuizione e sentimento risvegliato per lo Spirito, e fiducia suscitata dallo stesso Spirito, in che cosa? Nel fatto che la Parola è vicina a noi, è un uomo lo strumento di questa salvezza, ed è Lui a provocare la fede e lo scandalo, credere o inciampare. Chiunque invocherà il suo nome sarà salvato. La fede poi arriva alla sua formulazione non in dogmi ma in confessione fiduciosa: crede che Gesù (l'uomo che è la Parola di salvezza pronunciata da Dio) è il Signore, il Cristo, il Risuscitato (il primo che ha vinto la morte dunque ci saranno altri che risusciteranno a loro volta). Non ci sono due divinità ma un solo Dio, non c'è un Signore fra molti signori ma uno solo è il Signore, il Cristo, l'uomo Gesù.

Chi crede sarà salvato, questa è la conclusione, l'ultimo giorno, qualunque sia la sua origine, la sua razza o lingua, il popolo al quale appartiene. Perché la fede viene (dipende) dall’ascolto, che avviene per mezzo della parola di Cristo: (ara he pistis ex akoes he de akoe dià chrematos Christou). La totalità dell'offerta di salvezza viene desunta dalla universalità del fenomeno del peccato e della condanna. Viene offerta a tutti, ebrei e gentili, perché tutti sono nella stessa condizione, perché gli ebrei hanno ascoltato la parola divina ultima, come i gentili non avevano ascoltato la parola del Signore nel Sinai. L’argomento paolino si chiude con una serie di citazioni dalla Torah e dai profeti che mostrano l’universalità del disegno di salvezza e che nemmeno Israele è innocente, per cui anche Israele o si salva per grazia o è nella stessa condizione dei gentili tanto disprezzati.